SE PIOVE MEGLIO USCIRE CON L’OMBRELLO OBBLIGO ASSICURATIVO, LO STATO DELL’ARTE. ANCORA SULL’ART. 12 DELLA L.N. 247/2012

29 agosto 2016

Potrei sbrigarmi davvero con poco nell’onorare l’impegno con il comitato di redazione che mi ha comandato il pezzo sull’obbligatorietà dell’assicurazione professionale per gli avvocati. Basterebbe richiamare il parere n. 35 del CNF in data 24.6.-29.10.2015, sollecitato dal COA di Catanzaro, di cui dirò, e significare che il “cerino” è nelle mani del Ministero di Giustizia che, ai sensi dell’art. 12, comma 5 L.N. 247/2012, deve determinare le condizioni essenziali ed i massimali minimi di polizza.
Dovrei poi concludere il pezzo affermando che la retorica ha vinto sulla sostanza se è vero, come è vero, che a distanza di oltre 3 anni da via Arenula nessuno batte il colpo.  
E dire che per le altre professioni l’obbligo è già in vigore con il D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137 “Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148”, che sancisce l’obbligo per i professionisti di stipulare un’assicurazione contro i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale e rinvia al 15 agosto 2013 gli obblighi di assicurazione.
Con un qualche retro pensiero potrei immaginare trattarsi di un mercato non appetibile per l’universo assicurativo che forse non gradisce, che immagina possa discendere un obbligo a contrarre simile a quello per la RCA con premi insufficienti a coprire i rischi (vatti a fidare degli avvocati).
Del resto con il cd. mercato delle influenze, di grande attualità e sempre attivo, non si comprende perché la lobby degli assicuratori non sia impegnata nel pressing.
Non posso però accontentarmi di registrare quanto la politica e quanto l’avvocatura, ordinistisca e associativa, non facciano ovvero non sappiano fare e, allora, mi allargo col riprendere il tema della responsabilità professionale del ceto forense, lasciando semmai al direttore responsabile della rivista l’operazione “mani di forbice” sul pezzo che propongo.
Negli ultimi anni la responsabilità dell’avvocato ha dato vita ad un imponente contenzioso che a sua volta ha generato regole di matrice giurisprudenziale che hanno trasformato la responsabilità civile dell’avvocato in un “sottosistema” della responsabilità civile.
Oggi, la responsabilità civile dell’avvocato costituisce una materia con propri principi e con proprie strategie processuali.
Pare abbandonato dalla Cassazione il favor per il professionista avvocato e si deve registrare una tendenza nel riportare la relazione cliente-avvocato alla logica codicistica del rapporto tra normale debitore (avvocato) e creditore (cliente). Ne discende un ribaltamento degli equilibri (pur datati) e auspicati dalla relazione al codice civile sub art. 2236, determinandosi un regime di tutela preferenziale degli interessi del cliente.
Tanto riveste un qualche interesse per superare problemi definitori tra la responsabilità contrattuale o quella aquiliana che, come è noto, incidono sull’onere della prova (si consideri che fino a qualche tempo addietro tutto si svolgeva nel contenitore della responsabilità contrattuale salvo le marginali problematiche degli artt. 380 e 381 c.p. sul patrocinio infedele). È di meridiana evidenza anche l’evoluzione giurisprudenziale che tende a non lasciare alcun danno senza riparazione.
Per tornare a capofitto nel tema della responsabilità professionale registriamo una tendenza alla socializzazione del rischio talvolta spinta sino all’obbligatorietà cogente della copertura assicurativa per il rischio professionale specifico, ma nei fatti poi, nell’attesa della determina ministeriale, meglio “una vita spericolata” alla Vasco Rossi.
Giovi riportare uno spaccato motivazionale della Cassazione che un giudice modenese richiama come precedente datato da superare: La sentenza impugnata s’è, dunque, adeguata al principio in virtù del quale, in materia di responsabilità del professionista, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè dalla difettosa prestazione professionale. In particolare, trattandosi dell’attività del difensore, l’affermazione della sua responsabilità implica l’indagine - positivamente svolta - sul sicuro e chiaro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, quindi, la certezza che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente, rimanendo, in ogni caso, a carico del professionista l’onere di dimostrare l’impossibilità a lui non imputabile della perfetta esecuzione della prestazione (tra le varie, cfr. Cass. 28 aprile 1994, n. 4044).
Nel tempo comunque, salvo qualche deviazione, la necessità della dimostrazione del danno e del nesso eziologico pareva davvero pacificamente accettata.
Così non è, così non sarà più, però.
Non sembri allora fuori luogo dar conto dell’evoluzione del diritto vivente e accennare che dal concetto di certezza (1) (la parte doveva fornire la prova che con certezza la difesa - adeguata - avrebbe raggiunto il risultato), si è passati a quello di ragionevole certezza (2) (di accoglimento del gravame appunto). Altre pronunce, poi, si sono accontentate della semplice probabilità (3) o meglio del più probabile che non (senza l’errore si sarebbe avuto un esito processuale diverso). Infine si è introdotto il profilo della perdita di chance (4), che ha portato la Cassazione ad affermare che spettasse un risarcimento per il solo fatto di essere privati della possibilità di ottenere un qualsivoglia risultato utile.
Non può tacersi che pur dopo la teoria della perdita di chanche (5), che appunto pareva escludere la necessità del giudizio controfattuale, dobbiamo registrare che la Cassazione, più volte, ne ha ribadito la necessità con le sent. 18 aprile 2007 n. 9238 e 16 ottobre 2008 n. 25266.
Tornando alla stretta attualità, in via di sintesi allora non è vero che l'obbligo sia decorso dal 13 agosto 2013; tale termine per l’adozione della copertura assicurativa era fissato nel decreto 137/2012 in via generale per tutti gli albi professionali mentre nel nostro caso prevale la legge 247/2012, che è norma speciale. La decorrenza dell'obbligo è invece condizionata ai sensi del comma 5 dell’art. 12 all’emanazione dei parametri “condizioni essenziali e massimali di polizza” da parte del ministero di giustizia (sentito il CNF), già dalla prima stesura e non solo decorso un quinquennio per gli aggiornamenti atteso che la norma indica espressamente che tali parametri siano “stabiliti ed aggiornati”. Questa è anche l’interpretazione fornita dal CNF, con la circolare n. 14-C-2013.
Infine un accenno ai contenuti perché pare importante la sterilizzazione dell’effetto della ormai famigerata clausola claims made, con la previsione di un’ultrattività dopo la cessazione dell’attività professionale ed una retroattività, ambedue decennali. Per quanto riguarda la copertura del rischio infortunistico, che può non piacere, evidenzio non trattarsi di un doppione della copertura previdenziale ma che necessariamente andrà a coprire il danno differenziale, in particolare il danno non patrimoniale. Da approfondire, semmai, la questione relativa alla copertura del rischio infortunistico per i sostituti processuali ed i collaboratori occasionali per l’attività svolta all’esterno dello studio.  
Mi piace poi ricordare che Cassa Forense ha stipulato per la RC professionale apposite convenzioni il cui testo è rinvenibile sul sito, cui rinvio per la disamina.
In conclusione, restando alla musica leggera, da Vasco a Battisti, con “Emozioni”, seguendo l’airone sopra il fiume, l’avvocato che attende l’obbligo non potrà che  “ …guidare …. a fari spenti nella notte….” sperando nel fondo vittime dell’avvocatura.
Auguriamoci che il tavolo ministeriale (magari non a tre gambe) porti frutti, anche se tardivi, magari prima che il fuoco di Olimpia, in questi giorni partito dal tempio di Hera, arrivi a Rio per i prossimi giochi.
Attendiamo dunque i care givers del Ministero, sperando sempre in momenti migliori, non senza però chiederci se si debba proprio indugiare con l’obbligo e non provvedere anche in anticipo, in via individuale o collettiva che sia.
Giovanni Cerri
Clarissa Cerri

 

Note

1 - Il concetto stesso di certezza, come quello contiguo di verità, muta se lo si considera nell’ambito dell’ordinamento processuale. Nel processo, la certezza di un fatto, quella che si può ricostruire e dimostrare con delle prove, non è altro che “una verità probabile”, che si può ottenere, citando il Cordero, soltanto a prezzo di una determinazione quantitativa delle probabilità contrarie.

2 - Cass. 27 gennaio 1999, n. 722, in Danno e resp. 1999, 1123. Ancora, qualora il cliente dovesse dedurre un errore nell’attività del difensore, occorre che questi provi un sicuro e chiaro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, quindi, la cd. “certezza morale” che gli effetti di una diversa attività del legale gli sarebbero stati vantaggiosi: sul punto Franzoni, Dalla colpa grave alla responsabilità professionale, Torino, 2016, p. 113 nonché Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002 n. 30328, in Foro it. 2002, II, c. 601, annotata da Di Giovine.

3 - Cass. 6 febbraio 1998, n. 1286 in Danno e resp. 1998, 343, più volte richiamata e, da ultimo, Cass. 9237/2007.

4 - Cass. 13 dicembre 2001 n. 15759. In tema di reclamo tardivo avverso la decisione del Commissario regionale agli usi civici del Veneto Cass. 26 febbraio 2002 n. 2836 in Resp. Civ. 2002 p. 1373, con nota di FACCI, L’errore dell’avvocato, l’appello tardivo e la chance di vincere il processo.

5 - Cfr. sentenza 11 maggio 2002 Tribunale Modena, Giudice Cigarini, piuttosto rivoluzionaria quanto alla non necessità del giudizio controfattuale.

 

 

 

 

 

 

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